RACCONTO BLUE MONDAY

Blue Monday

Sono passati solo 3 mesi, solo, da quando le mie e le sue lacrime fuse insieme in una cascata arresa hanno bagnato il pavimento sporco, i piedi nel fango di quell’addio. 

Era il 19 gennaio, il Blue Monday. avevo letto quella stronzata la mattina prima di uscire di casa. “Il giorno più triste dell’anno” secondo l’ennesima inutile ricerca americana. 

Non ci avevo pensato troppo, avevo iniziato a parlare senza accorgermene, a cacciarla fuori dalla mia vita per salvarmi, per salvarci, ci raccontavo. Non ci ha mai creduto, io invece ci sono cascato in pieno nelle mie illusioni. 

Quando mi han detto che stava con Giulia non ho battuto ciglio. Lo sapevo da prima di quanto non lo avesse capito lei stessa che non era mera ammirazione. La botta è arrivata dopo, quando ho spazzato via le macerie dalla mia vita e il polverone di sporco si è diradato. Con la visuale limpida sul mio presente e lo spirito alleggerito, lì, è caduto il masso della sua mancanza. Sulla serenità ritrovata dei miei giorni, nell’allegria rinnovata con gli amici di sempre, si è insinuata nella mia appagante nuova quotidianità. Un tassello introvabile per completare ogni tramonto: il suo guardarmi, ormai quasi rimosso dai miei ricordi. 

Ho ripercorso centinaia di volte le strade dove potevo incontrare la ragazza che ora tiene la sua mano soffice e sempre sudata. Ti ho trovata alla fine, Giulia. 

Ti vedo già da lontano, i tuoi vestiti che gridano rivoluzione, non riesco ad odiarti. Ci salutiamo in preda all’imbarazzo: la tua timidezza, il mio disagio, l’improbabilità di quell’incontro. 

Passano almeno dieci minuti che ci invecchiano di dieci anni, prima che uno dei due due apra bocca. Nel frattempo abbiamo già camminato ad una velocità eccessiva per buttare tutto l’ossigeno in quel gesto semplice e pratico e negarlo al cervello. 

“Quindi?”

“Quindi cosa?”

“Cosa devi dirmi?”

“Nulla, in realtà”

Camminiamo ancora, ma più lentamente, siamo arrivati alle scalinate di piscio che conducono al Po.  I passi frenetici non coprono più il fruscio delle maniche lucide della tua giacca sui fianchi, mentre cammini con le mani in tasca, la kefiah alta, come a voler scoprire il meno possibile del tuo corpo al nemico. 

Ma io non ti odio. Nemmeno un po’. Non capisco ancora perché tu abbia accettato di vedermi e penso in quel momento che neanche io ricordo perché te l’ho chiesto. Forse per sentire una traccia appena percepibile del suo profumo sulla tua pelle. Narciso Rodriguez. Per notare che dalle tue Etnies malandate spuntano i suoi calzini buffi con il giorno della settimana, “per ricordare di cambiarli” e rideva. Mi distraeva quel suo ridere e mi scordavo di sfotterla perché poi ne metteva sempre due diversi addosso. Era giovedì o lunedì il giorno che mi ha detto “Ti amo, ma non riesco a dirlo”? E pianse, e io con lei.

Il Po oggi è altissimo, invadente. Non piove, ma il cielo ha lo stesso colore dell’asfalto e quando è così non mi sveglio mai davvero; per quante volte mi sciacqui il volto mi ritrovo con la faccia grinzosa, gli occhi gonfi e neri. Sono le sette di sera, ma è come se dovessi ancora bere il primo caffè della giornata. Forse per questo non ho voglia di abbandonarmi alla rabbia. Ti guardo, senza essere invadente. Cerco nelle tue forme, così diverse dalle mie, qualcosa che ci accomuni, una spiegazione a quello che è successo. Non trovo nulla.

“Dovevo vederti, ma non ho niente da dirti in realtà. Lei sta bene?”

Arrossisci appena la nomino. 

“Stiamo bene, Marta ha sofferto molto, ma adesso stiamo bene”

Sincera e non spietata. Io sono già cenere a sentire nella tua bocca il suo nome. Quanto tempo è passato da quando l’ho sentito pronunciare l’ultima volta. È diventato un tabù, il Voldemort della mia cerchia di amici. Da quando tutti hanno smesso di chiedermi di te. Mi risuona in testa la canzone insulsamente triste che la costringevo ad ascoltare e che ho tolto dall’Ipod mesi fa. Le facevano schifo i Fine Before You Came, sono “quei gruppi che urlano nel microfono”. E a lei le urla non piacciono, le piace sentire l’evolversi delle linee strumentali che si intrecciano. Chissà che musiche vi cullano mentre vi guardate abbandonarvi tra le braccia di Morfeo e io urlo, senza microfono. Affondo le grida in un cuscino che mi soffoca fino a che non arrivo a sentire ancora in qualche fibra nascosta l’odore del suo Pantene per capelli secchi, che secchi non erano mai. Allora lo getto in terra. Dormo senza, ormai, ho sempre più male al collo, il cuscino è sul pavimento pieno di urla e rabbia.

“Studia?”

“Si, a marzo ha dato due esami.”

Mi fermo un secondo, come se mi fossi dimenticato come si fa ad alzare il tallone e poi la punta del piede, a fare un passo. Poi ricordo, riprendo lentamente senza guardare davvero dove vado, ma lo scrosciare dell’acqua da un fontana mi dice che siamo già immersi nel Valentino. 

I suoi sogni sempre così sfocati, il suo entusiasmo contagioso, ma talvolta effimero. Mi odiava quando le chiedevo come andava l’università. Credeva la volessi diversa, perché io ero ingegnere e lei ancora non sapeva dove mettere tutta quella energia che intravvedevo solo a tratti. E io invece la volevo solo felice di raccontarmi la sua giornata. Non lo sapeva lei dove stava il suo sorriso, figuriamoci io che stentavo già allora a trovare il mio. Andavo a tentoni. Le prescrivevo le terapie per i miei malanni e ci credo che non funzionavano, ora lo vedo, nei suoi esami passati, che avrà festeggiato mangiando bene, bevendo del vino bianco, brindando con le amiche per poi tornare brilla a casa, a spogliare il tuo corpo, maledicendosi per quel bicchiere di troppo che, per quanto lo desideri, stasera non le concede di urlare di piacere, almeno non fino alla fine. Una scopata senza orgasmo è come una felpa senza cappuccio o i jeans senza le tasche, ti lascia lì, arreso, dall’eccitazione che si è fatta noia e l’amore che ha il gusto di una rabbia di cui nessuno ha colpa.

Come la mia, penso. 

“Come sta Alessandro?”

Lo so che non hai voglia di essere qui, ma che hai pietà di me perché sai cosa vuol dire non averla accanto. Cerchi le parole giuste, quelle neutre, che non tradiscano un sorriso che vedo attraverso quei pochissimi centimetri di pelle che concedi alla mia vista. 

“Va all’asilo, ha i capelli più scuri, ovviamente è altissimo.”

Ripenso a quando ho portato al suo nipotino troppo alto la raccolta delle danze slave di Dvořák che avevo trovato la mattina, appena prima di partire, al Balon, per la bellezza di 3 euro. Ero contentissimo. Diceva sempre che ai bambini bisogna fare ascoltare la musica classica, “così diventano più intelligenti”. Era ossessionata lei che Ale diventasse bello, forte, intelligente e femminista. Quante pretese per quelle gambine lunghe sì, per la sua età, ma ancora sottili sottili. 

Non ho fame, anche se camminiamo da ore, credo. Ho solo freddo alle mani, come sempre.

Ti squilla il telefono. Lo guardi, non rispondi, ma io la sua voce la sento ugualmente. Di sicuro non sa che siamo qua io e te, le sue dolci metà. Sorrido, non so bene perché, immagino cosa penserebbe di questa scena, dell’improbabilità di questo incontro. Non te lo chiedo nemmeno, ma so che non le dirai nulla. In fondo non siamo animali così diversi. Non è la gravità della mia voce ad allontanarci o quello che ho nelle mutande. Ci guardo da fuori, un uomo e una donna che passeggiano da ore per una città semi-deserta, sembra una poesia di Prévert, invece a tratti è back off bitch e in altri momenti è il compleanno di Andrea. Onestamente è una canzone che non ho mai capito, ma che amo anche se mi rende triste. Proprio come lei. Seguimi e così/ che non c’è più un posto dove andare, solo un altro che ha perso.

“Grazie” .

Pronuncio questa parola lentamente, solennemente, mentre cerco il tuo sguardo, fisso sulle tue Etnies, sui calzini del Mercoledì. Non sono mai stato così sincero. Mi fai un cenno con il capo che vuol dire addio, vuol dire prego, vuol dire mi dispiace. Vai via, un po’ meno impacciata di come eri arrivata, un po’ più rapidamente, verso il pasto caldo che ti attende, le spiegazioni che dovrai dare per quel ritardo. Vi vedo baciarvi sulla porta, i suoi occhi chiusi, il volto sereno, il gatto che si struscia prima sull’una e poi sull’altra. Danza intorno a voi. Tu senti  ancora il mio sguardo addosso e un po’ ti viene da piangere, ed è assurdo. Io sono ancora qua, dove ti ho ringraziato, per aver staccato la spina alle macchine che mi permettevano di respirare senza vivere. Non so dove andrò ora che la speranza mi lascerà dormire, uscita per sempre dalla mia vita con il suo nome in spalla. Marta. Guardo quel lembo di prato in cui mi ha chiesto come era morto mio padre, senza che le avessi dato il permesso di farlo. 

Dovevo capirlo quel giorno che non era una che bussava prima di entrarti dentro, che non salutava prima di partire per sempre.

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