Lo sport è da sempre considerato come uno dei modi più piacevoli e diffusi per veicolare valori, e così anche il calcio, storicamente, non è stato da meno.
Senso d’appartenenza, rispetto dell’altro, integrazione sociale, affermazione del merito, lealtà, sono solo alcuni degli elementi che certamente si apprendono sul rettangolo di gioco e ancor di più all’interno dello spogliatoio, quando l’adrenalina scema. Tutti questi valori ci sembrano sfuggire se pensiamo al calcio come a un sistema che macina miliardi di euro l’anno.
All’ombra di calciopoli, dei campionati maggiori e dei maggiori campioni, esiste una realtà fatta di piccole società, di persone che accantonano la propria identità personale per farsi “squadra”. É proprio in questi piccoli contesti che ritroviamo alcuni esempi di ciò che di bello il calcio può dare: la rinuncia alla vita mondana del sabato sera in nome di un progetto che coinvolge altre persone e verso le quali si hanno delle responsabilità; la costanza grazie alla quale giocatori che non vengono retribuiti in alcun modo tornano in campo dopo infortuni gravi che comportano una lunga riabilitazione, costosa, sia in termini economici, che di tempo, superando lo sconforto e sognando l’adrenalina del rientro.
Una categoria a sé sono le calciatrici. Già, anche le donne giocano a calcio, nonostante l’impegno profuso dall’attuale presidente della FIGC, Carlo Tavecchio, per sminuire questo strano fenomeno guardato ancora con sospetto e curiosità quasi voyeristica.
Risale a maggio 2014 l’intervista rilasciata a Report dall’allora aspirante presidente:
«Finora si riteneva che la donna fosse un soggetto handicappato rispetto al maschio sulla resistenza, sul tempo, sull’espressione atletica. Noi siamo protesi a dare una dignità, anche in senso estetico, alla donna nel calcio».
Già, perché quello che conta quando si parla di donne è solo la loro apparenza, anche quando si parla di atlete, di professioniste. In quest’ottica non stupisce che il buon Tavecchio abbia in passato presentato un progetto sul calcio femminile dal titolo “Spogliati e gioca”. Eppure lo statuto della FIGC alla voce Principi fondamentali inserisce questo articolo:
- La FIGC promuove l’esclusione dal giuoco del calcio di ogni forma di discriminazione sociale, di razzismo, di xenofobia e di violenza.
Principio sconfessato dal presidente in quasi tutte le sue parti nelle dichiarazioni sessiste e razziste, giunte al culmine con la sua considerazione dei giocatori stranieri in Italia come ex-mangiabanane.
In definitiva, bisogna saper distinguere tra chi il calcio lo gioca e le variegate dinamiche extra-sportive. Il calcio portatore di valori è quello che esisteva da ben prima dell’avvento dei grandi Club. Quel calcio che ti fa alzare un po’ agitato il giorno della partita, che monopolizza i tuoi pensieri nelle ore appena precedenti il match, che crea quella fratellanza sul campo che fa sì che anche tra i più tenebrosi maschi eterosessuali ci si lasci andare ad effusioni calorose per celebrare un goal, una vittoria. Quello che ti insegna a dire all’arbitro in difficoltà sull’assegnazione di un pallone: “L’ho toccata io” e a sentirti fiero di quell’affermazione, mai sciocco.
Il calcio è un gioco di squadra: come in un’orchestra in cui solo i singoli elementi sanno discernere le imperfezioni personali, che talvolta il pubblico nemmeno capterà, mentre gli applausi saranno rivolti alla performance corale, così i fischi e l’approvazione toccano tutta la squadra indistintamente.
I conti si regolano in spogliatoio, a bocce ferme.
Grazia Tomassetti