Una volta la musica era Mina, la sua voce gloriosa, l’Amore, il cielo chiuso in una stanza. Era qualcosa di altisonante e incantevole. Fino a pochi anni fa, a dire il vero, si rincorreva ancora la perfezione dell’eterno e dell’assoluto. Più bella cosa non c’è. Ma da lì a poco la voce nasale di Eros avrebbe stonato con il suo matrimonio naufragato, uno tra tanti.
Oggi i versi che sempre più ci conquistano sono altri. Le voci sono talvolta meno talentuose e le rime non sono così poetiche. A spopolare negli ultimi anni è Il trionfo del banale. E alle generazioni di adultescenti piace. Sulla rete vi sarete certamente imbattuti in quel bambino tenero e grassoccio che canta su una base quasi sempre uguale a se stessa: cammina per la città e ci parla della vita dopo l’amore o dopo l’illusione di averlo incontrato, perché nulla è certo o scontato sedici anni dopo l’anno 2000. Allora via bella scrittura, e benvenuta paratassi, benvenute ovvietà. Ciò che sorprende è che tra le parole disposte con poca perizia troviamo il nostro preciso ritratto con le conseguenze che ciò porta con sé: riflessioni, quando non lacrime.
Ci siamo noi a cantare, c’è il bambino cicciottello cingalese, c’è Edoardo D’Erme (aka Calcutta), siamo tutti noi. Noi che sbagliamo e l’errore ci piaceva cantato già dai tempi del primo Vasco, che resisteva ancora come figura eroica, antieroica, ma comunque lontano dalla scontatezza del quotidiano. Con Calcutta l’errore si rivendica e si sfuma con del buon vino o più probabilmente con il vino in offerta della settimana.
Bevo un bicchiere per pensare meglio/ per rivivere lo stesso sbaglio.
L’indecisione regola ogni nostra mossa: volevo avere dei figli/ nè troppi nè pochi/ nè tardi né domani. Poche idee ma confuse, per tenerci impegnati, per provare a sconfiggere la noia che invece ci vince sempre. Così, a fianco dei grandi show di Madonna, Ligabue e Jovanotti, che in poche ore riescono a riempire stadi e palazzetti venduti carissimi ai loro fan e accompagnatori; ci sono i live di Calcutta, degli Eugenio in Via di Gioia, di Bianco e di tutti gli artisti del sottobosco indi, spesso e volentieri sold out nei piccoli locali più o meno storici che le varie città concedono loro. Solitamente ci si trova ad assistere a un concerto dall’acustica mediocre e dalla visuale pessima, con il cantante che nove volte su dieci è visibilmente sbronzo perché in fondo è venerdì sera anche per lui. Non si va a sentir cantare Calcutta, che magari ha pure la febbre e due occhiaie da panda; si va a cantare con Calcutta, a urlare tutti insieme, sbrodolarsi birre addosso mentre si dondola scoordinatissimi. Un concerto che inizia non prima delle 23, per rimpolpare le casse del locale ospitante a suon di drink per ingannare l’attesa. In sordina l’artista conquista il palco e biascica parole che sono lontane dagli inni alla vita del Blasco. Dopo poco più di 15 minuti siamo già al climax del concerto, considerando il limitato repertorio dell’artista (due album all’attivo, uno sconosciuto ai più), e la folla si scatena, godendosi l’unica canzone che davvero tutti conoscono: l’atmosfera si fa quasi romantica, per quanto disillusione sia la nota costante, ci si stringe. Volevo solo scomparire in un abbraccio /Confondermi con te. Ancora una volta deboli e indecisi, irrisolti.
Ha vinto Edoardo perché ha sconfitto l’ipocrisia della bellezza assoluta, facendoci sentire fottutamente sereni nella nostra mediocrità. Sopra e sotto il palco, ci annoiamo anche alle feste, siamo a dieta da una vita, non abbiamo nessuna voglia di lavare i piatti e ne andiamo fieri, ci mancano alcune persone, è inevitabile, quanto inutile. Quanto chiedersi se poi le abbiamo amate davvero.
L’ultima canzone arriva prima che sia passata la mezzanotte. Il locale si svuota velocemente, una biondina un po’ dubbiosa chiede al fidanzato sedicenne con la barba vissuta: “Ma Calcutta non era un bambino cicciottello?”.