dstanziamento sociale covid

Oggi ho fatto un aperitivo con Antigone

Il distanziamento social(e) di Debora parla di teatro, carne, video-lezioni e l’auspicio di un cambiamento radicale

Quando ho visto Debora per la prima volta è stato su un palco, lei era sul palco. Un palco spoglio, come quello della Cavallerizza Reale quando era ancora uno spazio occupato e vivo. Interpretava la figlia di Edipo e nel farlo la sua fisicità era determinante, insieme alle sue parole, protagoniste di quei metri quadrati di spazio scenico altrimenti identico a se stesso.

Oggi la ritrovo attraverso il solito occhio digitale. Lontano dal palco svela un lieve accento toscano che la rende meno mito e più umana. Se l’arte è già messa di merda in questo momento, il teatro è in ginocchio. Il teatro ha bisogno di ciccia, mi dice. Questa espressione la trovo buffa e calzante, il teatro che mi è capitato di incontrare più spesso è quello che ha i piedi neri di un palco popolare, lo sforzo interpretativo di inventarsi una scenografia che non esiste. Un teatro vivo, contagioso, dice Debora, e contaminato. Un teatro incompatibile con le mascherine, la diffidenza e il distanziamento sociale.

Parlando finiamo lontane, a immaginarci come faranno i bambini a esplorare il mondo come farebbero naturalmente, cioè senza paure, in un mondo che, invece, sta insegnando loro che c’è un nemico nell’aria e devono guardarsi da tutto, lavarsi da tutto.

Torniamo a noi. A quello che ci aspetta e che ora è molto nebuloso. Per Debora è tutto da rifare, non il teatro, non l’arte, tutto. Anche il nostro sistema capitalistico e forse la nostra struttura sociale. Io faccio sempre fatica ad allontanarmi così tanto dalla realtà, le chiedo un appiglio a cui vorrei aggrapparmi anch’io: lei vive con il compagno e 4 amici. Il loro assembramento quotidiano è la sua rete di supporto, un nucleo famigliare atipico che oggi è più che mai un supporto, ma che potrebbe esserlo sempre, mi suggerisce.

  • Ora hai 30 anni, tra 10 anni pensi che potrebbe ugualmente funzionare?
  • Io mi auguro di sì.

Lo sforzo da fare è immaginativo, in primis. Abbiamo bisogno di sostegno, di una rete ampia e solida.
Alla fine mi ha convinto, se penso a una rete, mi viene in mente quella di sicurezza, che c’è, pronta a salvarti se cadi, ma devi tenerla lì, stabile, fissa, ben prima che accada l’imprevisto. La prima cosa che farà Debora quando tutto sarà finito? C’è una panchina sul lungo Po che mi aspetta, so benissimo quale, con un botto di birre e un bel gruppo di amici. Ci salutiamo con questa immagine, l’odore denso del Po, le bottiglie che passano di mano in mano, in un rituale che oggi sembra coraggioso, mentre tutto si fa meno pesante, liquido.

A presto con altre storie di vita, vita in quarantena, ma pur sempre vita, di sensazioni, sconforti, sorrisi e videochiamate. Continuate a seguire le altre storie di Distanziamento Social(e), un progetto che nasce grazie a Billy – Montaggio incluso.



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