Noi della Vergine siamo esseri profondamente malinconici, probabilmente perché nasciamo che la festa è appena finita, persa per un soffio e sono tutti un po’ giù di corda.
In virtù del mio essere, ieri mi son concessa una sera particolarmente frizzante: una cena con la mia sorellona che vedo assai poco. Il menù prevedeva costolette d’agnello, vino rosso e lacrima costante, e non vi nego non avrei voluto essere in alcun altro posto. Con Cosmo sotto il tavolo che ascoltava della morte di mio padre senza fare una piega.
A volte le cose per accettarle, anche a distanza di anni, decine di anni, le devi sviscerare, le devi curiosare. Da mia madre, invece, ho imparato che se non parli della “cosa” la cosa non esiste e tra le tante cose belle che mi ha insegnato, questa certo non c’era. Le cose che non esistono abitavano comodamente ogni silenzio e si mangiavano via pure le parole che volevano uscir fuori. Invece una bambina forse ha solo bisogno di sapere, di saziare la curiosità tipica della sua età e avere qualche risposta ai suoi perché.
E ieri ho saputo che il latte ti sporcava la camicia, probabilmente nera, che indossavi in uno dei giorni più tristi della tua vita, continuava a uscire, senza vergogna, senza rispetto, perché la natura non si ferma di fronte ad alcun sentimento umano. E di sicuro io piangevo, altrove, in altre braccia, così distanti oggi. Forse è per questo che oggi le lacrime mi scendono difficilmente, quasi mai, perché sono state fin da subito inappropriate, prepotenti, senza lasciare tregua nemmeno per il sonno. E ho ascoltato con la stessa curiosità di una bambina, perché lì sono rimasta, appesa. A fare pace con l’idea di essere imperfetta, perché tu lo eri più di me, ma eri profondamente buono e mangiare ti piaceva, anche più di quanto non piaccia a me. Che i segreti non sempre sapevi mantenerli, illuso che tutto si risolvesse, ma a volte non può essere così e la sincerità si fa egoismo.
Vederle le cose, prima da lontano e poi volerle toccare, attraversare, forse è l’unica maniera per lasciarle lì, non che spariscano, ma convivono con noi, in un quadro fortunatamente più grande. Sapere che tu eri piccolo e c’è chi dice che non capivi. E per il resto della vita è sempre stato così, tu protetto, tu curato, tu rinchiuso.
Per sapere quanto tempo fa è morto mio padre prendi la mia età e ci togli 6 mesi, una vita quindi, beh la mia vita quindi. Che infatti è una vita senza. Senza la parola papà. Senza molti sorrisi intorno, a parte i miei, che avevo voglia di ridere sempre. Senza le gite, che dove vuoi che andiamo. Senza le foto tutti insieme, perché manca qualcuno sempre. Senza spiegazioni, senza troppe parole, senza tregua per te, senza leggerezza per me. Sarà per questo che mi piace la superficialità, fatico a gestirla, la giudico male talvolta, ma ne sono profondamente attratta e quando la sfioro mi sento felice, che vi devo dire?
Sarà per questo che mi piace bere e lasciare che il tono della mia voce si alzi, come era meglio non fare, all’epoca. A casa mia si viveva con il silenzioso. Non facevano rumore né la gioia, né il dolore.
E così che si perde l’orientamento. Che si assomigliano i compleanni e i funerali, che i vostri auguri suonano come condoglianze. Che i regali non mi piacciono, perché cercate una reazione che fatico a trovare, e le aspettative mi creano ansia.
Ma non pensate che sia triste oggi. O meglio, la tristezza ha una sua dignità che oggi riesco a rivendicare e se non vi spiace lo chiamo traguardo. [è un superpotere essere vulnerabili].
E adesso basta, guardata in faccia la tristezza, si può tornare a sorridere di cose semplici e banali. Del pranzo, di un nuovo lavoro assurdo alle porte, delle feste lungo il fiume, delle ore piccole fatte per un bacio, delle storie Instagram più buffe, delle partitelle infinite, dei concerti di myss keta, delle feste trash, delle foto guardando altrove, della faccia di Cosmo quando ha fame, della tua quando gli occhi non ti si aprono, di mia sorella che nonostante tutto, ride. E dice che non c’è problema.