Ci salveremo disprezzando la realtà

E né bellezza o copertina servirà


C’erano le ore in macchina e le stesse canzoni che a seconda della luce sanno scaldarti più il cuore o la voce. Il termometro che scende e poi di colpo un sole caldo che ci invita a tuffarci nella promessa di un altro anno di vite, di mani, che stringi o lasci andare.

C’era il posto ideale che non c’è, la tovaglia di troppo, una posata in più del dovuto, ma poi chissenefrega se il conto è salato e l’epilogo dolce-amaro. Le camminate in fila indiana coi piedi freddi e la nausea che non riesce a scalfire il buonumore. C’era una telefonata, un vivavoce, vite altrove che cercano anche loro una destinazione e sperano di imbroccare la strada.

Poi c’era un falò quasi spento che non scaldava più nessuno e tu che lo aizzavi con poca cura e lui che ci credeva più di te. Fissare le luci e il profilo delle vite che invidiamo. E un po’ farsi portar via da quella calda corrente, farsi bruciare da un lapillo e comunque non volere arretrare ancora. Rifugiarsi nella propria gestualità prepotente per coltivarci un pensiero che striscia solo e non sa volare.

I ritorni infiniti su strade mai a pagamento e la magia della scoperta e del chiedersi che direzione prende la strada dopo quella salita. La stanchezza del fare niente e ancora niente e sprecarci un sacco di energia. Ma ritrovare parole, paure, piacere nel navigarci senza per forza avere un piano.

E poi la neve. Che non dice niente. Che fa un freddo cane, che ti entra ovunque, che fa sparire sotto di sé ogni punto di riferimento. Che gela il sangue, che anestetizza.


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