La desolazione di San Salvario d’estate, la mia prima estate in città, non la dimenticherò, mai.
La voce di una signora di colore si intrometteva dalla finestra e mi faceva compagnia cantando waka waka, ma non quella di Shakira.
Io ero per la prima volta sola in mezzo a tanti.
La solitudine nella folla è differente da sapere interpretare rispetto a quella delle campagne, delle amache sospese sui pensieri.
Occhi mi squadravano a ogni incrocio e io non trovavo nessuno sguardo che riuscissi a reggere.
Mi faceva compagnia la musica dell’Orso. In un tempo in cui ascoltare indi era davvero per pochi, per sentirti ancora peggio.
Le pareti di quel muro spessissimo riuscivano a essere fredde anche ad agosto
e il pavimento mi regalava schegge che si inflivano nei piedi portando dubbi e imprecazioni.
Però era la prima battaglia che sentivo giusto combattere. Leggevo i fondi del the e mi sapevano di buono a venire.
Un sorriso, poi, lo trovavo sempre, ed era proprio sotto casa, in quel locale dove c’era sempre un gran viavai e lavoravano 16 ore al giorno.
Ho ascoltato storie tutte uguali, di anime che venivano dall’Egitto e tornavano solo molti mesi dopo, quando avevano abbastanza pane da roportare a casa.
E mi cheidevo come riuscssero a mettere da parte l’ansia di vivere,
a soppriemerla in quei pochi metri quadri che trasudavano puzzo di cibo e si riempivano di gente che passa senza restare.
Ma ad ogni ora, ogni giorno dell’anno passare davanti a quel locale era un po’ casa. Una casa povera, una camera che non raccontava nulla di me, se non la mia precarietà.
Lavavo a mano magliette rosse ogni giorno e ogni giorno puzzavano ancora di farina, come se l’acqua non bastasse a lavar via la routine, ma ci voelsse l’alcol, già lo sapevo.
In quella casa in pochi mesi ho perso lacrime e trovato ragioni di essere.
Un viaggio che forse porta un po’ più lontano
da quei tramonti che hanno dei colori chimici.
E chissà quali pavimenti più regolari mi attendono.