Parlare di violenza di genere in maniera semplice è fondamentale
Io non amo gli estremismi, né quelli buoni, né quelli cattivi, non quelli politici, né tantomeno quelli ideologici.
Ho sempre pensato che certi circoli intellettuali sia di destra che di sinistra fossero estremamente estranei alla realtà, privi di ogni principio di crescita poiché lontani da ogni confronto reale o realistico.
Riportando il discorso su un argomento più terra terra: a me è piaciuto il film di Paola Cortellesi. Sicuramente una chiave di lettura estremamente pop per raccontare la violenza, eppure un bel film. E no, Barbie non mi è piaciuto, semplicemente perché era un brutto film per il mio gusto personale e non per qualche snobismo di principio.
Parlare della violenza sulle donne non è affare semplice, digeribile; soprattutto perché si tratta di un argomento che spesso interessa solo una parte della popolazione: le donne stesse. E per quanto sia utile parlare con la compagine femminile di questo argomento, per donare consapevolezza, forza e senso di comunità, è decisamente più importante che a farsi una cultura a riguardo siano coloro che si identificano nel genere maschile.
Il femminismo non deve e non può permettersi di parlare solo alle donne, di utilizzare un linguaggio sessista ad esclusione maschile e forzare un passaggio educativo che per una grande moltitudine si trova in una fase assolutamente acerba.
Mentre nei circoletti radical chic si discute di sfumature linguistiche inclusive (su cui tutt* noi con un solido background culturale/linguistico afferente alla cultura queer amiamo trastullarci) una fetta ancora troppo grossa della popolazione crede che in fondo “uno schiaffo può scapparci”, solo come monito, per carità. Come reminder della storica minaccia dell’uomo predatore e della donna preda in costante fuga che deve essere scaltra e rapida, mai forte. Deve stare al suo posto.
Occorre partire dal basso per fare educazione alla gender equality
Quindi sì, ben venga il film di Paola Cortellesi che con insospettabile abilità registica e la spregiudicatezza di chi dirige il suo primo lungometraggio, trasforma in danza una violenza, un ballo di equilibri in cui due corpi che si conoscono alla perfezione sanno farsi del male, ma in maniera ordinaria e silenziosa.
“La violenza (di genere, domestica), quando non si chiamava così, era l’ordine naturale delle cose. Non si discuteva. Lo è ancora, in tantissimi casi, purtroppo. Per questo, credo, il film di Paola Cortellesi ci riguarda così da vicino tutti quanti”.
Concita De Gregorio in un recente pezzo su Repubblica
C’è solo un errore nel film di Paola Cortellesi: il bianco e nero che allontana e rimanda a un’epoca passata, quando la storia narrata in “C’è ancora domani” è una storia ancora attuale, purtroppo.
Basti pensare che solo nel 1981 avvenne l’abrogazione della cosiddetta legge sul cosiddetto “delitto d’onore”, che recitava così: “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni”.
Fino al 1981 lo Stato italiano riconosceva un particolare tipo di omicidio, il cosiddetto “delitto d’onore”, un omicidio necessario per difendere l’onore e quindi punito in maniera “blanda”, perché era giustificabile ammazzare la moglie fedifraga. Non è il Medioevo, è un tempo in cui molti di noi sono nati.
Prima partiamo dalla pellicola di Cortellesi e solo molto dopo possiamo parlare della raffinatezza della sensibilità della gender equality come esercizio di quotidianità, di mansplaining e di tutti i termini che raccontano la complessità di un problema che va ancora aggredito dal basso.
Abbiamo bisogno di meno post Instagram e più pratica femminista quotidiana e attiva
E purtroppo molti di coloro che fanno bandiera di un certo tipo di femminismo intersezionale ed evoluto, concentrandosi sulla teoria, si dimenticano che la pratica inizia ben prima dell’attivismo politico, della piazza o del dibattito ideologico. La pratica inizia quando ci si alza la mattina e si vivono situazioni di quotidianità: quando rispondiamo parlando sopra una collega a lavoro, quando non ci curiamo della sensibilità altrui perché a noi non è mai capitato e non sappiamo praticare l’empatia, quando diamo per scontato e non facciamo l’esercizio di mettere in dubbio costantemente i fastidiosi stereotipi cuciti addosso alle “femmine” ancora oggi.
Non è facile domandarsi costantemente se non siamo noi, i primi sessisti, è più facile condividere un post femminista su Instagram, certamente, costa meno fatica, meno tempo e meno soldi perfino, rispetto ad andare a vedere il film di Paola Cortellesi, ma C’è ancora domani: fateci un pensiero, oggi.