La sigla LGBT è un aggettivo invariabile, acronimo di lesbiche, gay, bisessuali e transgender.
In realtà la prima sigla, nata a metà degli anni ’80 negli Stati Uniti, era composta da sole tre lettere LGB. I transessuali sono stati inseriti successivamente, all’inizio degli anni ’90. Non si è trattato di un banale processo grammaticale, chiaramente, ma fu il risultato di un’inclusione conquistata a fatica dalla comunità transgender. Sebbene gay, lesbiche, bisessuali e transessuali siano esistiti da sempre, è relativamente recente il momento in cui sono diventati un soggetto politico unico. E per farlo hanno sfruttato un appellativo che li rendesse tali. Perché, se di un termine politico si tratta, almeno all’inizio della sua storia, bisogna aspettare gli anni 2000, per quanto riguarda l’Italia, per vedere l’acronimo inserito in contesti di altra natura, come ad esempio quello artistico.
Con l’avvento del terzo millennio si inizia a parlare di musica LGBT, di film LGBT, ecc. Un esempio è rappresentato dal festival del cinema di Torino dedicato alle tematiche omosessuali, che nasce nel 1986 come Festival Internazionale di film a tematica omosessuale e nel 2008 diventa Torino GLBT Film Festival.
E tutti gli altri?
LGBT è di gran lunga la sigla che ha riscosso maggior successo, anche rispetto alla variante GLBT, di fatto intercambiabile. Esistono altri acronimi, più inclusivi, collegati a un discorso politico che si allarga in favore delle mille sfaccettature della sessualità.
Tra le numerose varianti, l’unica che ha ottenuta una discreta diffusione è LGBTQ. La Q sta per queer, un termine ombrello che ha una travagliata storia di uso denigratorio nei confronti della comunità omosessuale, la quale ne ha poi rivendicato l’uso in prima persona, estendendone il significato. Queer in inglese significa letteralmente “bizzarro”, venne usato probabilmente per la prima volta con accezione dispregiativa a fine 1800 da John Sholto Douglas, nono marchese di Queensberry. In una missiva il marchese scrive: «Snob Queers like Rosebery», riferendosi all’amante omosessuale del figlio Francis. Soltanto nel 1990 viene riscattato dal gruppo di attivisti newyorkesi del movimento Queer Nation che scrive nel suo manifesto:
«Using “queer” is a way of reminding us how we are perceived by the rest of the world. It’s a way of telling ourselves we don’t have to be witty and charming people who keep our lives discreet and marginalized in the straight world. […] Yeah, queer can be a rough word but it is also a sly and ironic weapon we can steal from the homophobe’s hands and use against him».
Usare la parola queer è un modo per ricordarci come siamo visti dal resto del mondo. Un modo di dire a noi stessi che non dobbiamo per forza essere brillanti e affascinanti e mantenere le nostre vite all’interno dei canoni tradizionali di normalità. […] Queer può rimanere una parola negativa oppure possiamo farla diventare un’arma astuta ed ironica, sottrarla dalle mani degli omofobi per usarla proprio contro di loro.
Come da copione il termine nato come strumento politico diventa poi di uso comune nella cultura mainstream tanto da dare il titolo a un telefilm a tematica omosessuale: “Queer as a folk”. Ma allora perché aggiungerlo alla sigla LGBT se di fatto ad inventarlo, anzi, a reinventarlo, sono stati gli stessi appartenenti alla comunità omosessuale?
Sessualmente, etnicamente o socialmente eccentrico rispetto alle definizioni di normalità codificate dalla cultura egemone.
È queer chiunque si ritenga tale. Una parola che si oppone agli stereotipi diffusi nello stesso ambiente gay. L’aggettivo si riferisce anche a coloro che pur essendo di fatto eterosessuali rifiutano le categorizzazioni a prescindere. Queer sono coloro che combattono il binarismo di genere, cioè la teoria che prevede la rigida e immutabile corrispondenza tra sesso biologico e genere che si concretizza in maschio e femmina, senza contemplare la possibilità che l’identità di genere sia qualcosa di “liquido”, come direbbe Bauman.
Un’altra sigla che ha riscontrato una discreta diffusione è LGBTQI , con l’aggiunta della I di intersessuali.
Il procedimento è sempre lo stesso. L’iniziale presupposto è il coinvolgimento nel discorso politico, in questo caso degli intersessuali. Quei soggetti cioè che per cause genetiche presentano contemporaneamente organi riproduttivi e/o caratteri sessuali secondari di tipo maschile e femminile o intermedio. Gli intersessuali combattono una battaglia di primaria importanza, quella per il riconoscimento. L’obiettivo è ancora una volta scardinare il binarismo di genere partendo dal semplice presupposto che limitare le possibilità ai soli due generi sessuali maschio/femmina escluderebbe l’esistenza stessa di questi soggetti. Gli intersessuali, di norma, vengono sottoposti da piccolissimi a interventi chirurgici che li riposizionano all’interno di un sesso piuttosto che dell’altro, a discrezione medica. Quello che chiedono è la possibilità di decidere essi stessi di scegliere da che parte stare, una volta raggiunta l’età adulta o di rimanere indeterminati senza che si metta mano al bisturi. In Germania già da novembre 2013 esiste il terzo sesso per cui i neonati intersessuali possono essere registrati come neutri e decidere in un secondo momento la loro identità di genere.
Talvolta si incontra ancora la sigla LGBTQIA , dove la A può valere sia per asessuali che per allies. Gli asessuati rivendicano il loro diritto a disinteressarsi della sessualità, a non provare interesse cioè né per l’uno né per l’altro sesso. Rivendicazione coraggiosa in un modo ipersessuato come quello in cui viviamo. Allies sono invece gli alleati, cioè i cisgender eterosessuali che perorano la causa GLBT.
Verso una sessualità liquida
Lo aveva già intuito Alfred Kinsey nel 1948, quando osservò all’interno de Il comportamento sessuale nel maschio umano, frutto della sua “inchiesta sulla sessualità” che:
«Soltanto la mente umana inventa categorie e cerca di forzare i fatti in gabbie distinte. Il mondo vivente è un continuum in ogni suo aspetto».
Umberto Veronesi in tempi ben più recenti (2013) profetizzava perfino un futuro in cui mascolinità e femminilità tenderanno a mescolarsi fino a somigliarsi e confondersi: «E’ un’evoluzione in corso che sfocerà in una nuova e più ampia sessualità».
Ben venga lo sviluppo di una terminologia specifica quindi, utile alla costruzione di un dibattito politico e di sensibilizzazione. Non è tanto importante scegliere e diffondere la sigla lessicalmente più azzeccata, quanto promuovere il messaggio che tutti i soggetti coinvolti interpretano nelle loro battaglie e che risulta essere il medesimo: diffondere e convincere della validità degli Studi di Genere e superare una visione antiquata di binarismo inadatta a interpretare la società odierna nella sua complessità, nella sua liquidità.