Cronaca di una bella partita in brutta compagnia
Ieri sono stata allo stadio a vedere una grande Juventus femminile battere un ottimo Olympique Lione. Fin qui tutto bene: vedere uno stadio come l’Allianz Stadium dedicato a una sfida di calcio femminile era impensabile fino a poco tempo fa ed esserci è emozionante. Biglietti gratis per tutte le donne e per i bambini fino a 6 anni, gli uomini invece pagano 4 euro. Una scelta che comprendo solo in parte.
Gli uomini comunque allo stadio c’erano e non generalizziamo: ce n’erano di tutti i tipi. La fortuna ha voluto che però io mi ritrovassi accanto alla sottospecie peggiore della categoria, almeno in questa circostanza.
L’esordio è stato arrivare, sedermi ed essere accolta da risatine e sguardi ammiccanti di questo manipolo di bifolchi che dicono “Non vi preoccupate – riferiti al loro amico alla mia sinistra – lo teniamo d’occhio noi”. In che senso? Mi chiedo, trovando già dentro di me la risposta, purtroppo. Per questi esemplari di uomo, lo stadio è quel posto dove fare bella mostra dei più gretti e stereotipati tratti che caratterizzano il loro genere. Praticamente recitano loro stessi in una versione brutta.
Il tutto è chiaro fin dal principio, da quando si chiedono a voce fin troppo alta se le atlete in campo, visto il pantaloncino bianco, abbiano sotto il perizoma (comprensibile quesito che potrebbe spostare l’andamento del match, dico a me stessa mentre zittisco la feminist che è in me per godermi la partita).
Uno del gruppo allena una squadra a 11 di serie C (o B) e continua a paragonare le giocatrici della Juventus alle sue ragazze, assimilandole a un prototipo generico di ragazza calciatrice che ovviamente fa le cose peggio del suo corrispettivo maschio. Da lì al paragone con il loro calcetto del mercoledì sera, è un attimo. Poco importa se queste ragazze si allenano ogni santo giorno con sacrifici perfettamente equiparabili a quelli dei vari Dybala e Bonucci; quello che rimane è che “per loro il campo è troppo grande”, dovrebbero giocare in un campo più piccolo.
La partita nel frattempo ha preso forma, la Juve fa il suo, dopo aver preso nei pochi minuti il primo gol, riesce a tenere in piedi un match difficilissimo sulla carta. Le francesi sono tecnicamente più precise, fraseggiano in velocità e si portano dietro la convinzione di chi gioca a pallone così seriamente già da un pezzo. Però le juventine sono spinte dalla forza del sogno che stanno vivendo, dalla novità che è ancora per loro questo Mestiere, finalmente.
Tutta questa riflessione filosofico-romantica viene puntualmente interrotta dal tizio a fianco a me che intima all’amico di mangiarsi una banana, trovando ilare la questione. A 40 anni.
Fine primo tempo. I ragazzotti non più di primo pelo si assentano in cerca delle loro birrette, cosa che se da un lato ci lascia 15 minuti di respiro, dall’altro ci condanna a una palese degenerazione nel livello già mediocre delle conversazioni in atto.
Al loro ritorno i nostri simpatici tifosi sono in pompetta più di prima. La partita fortunatamente ci regala grandi soddisfazioni; Girelli su un pallone lasciato maldestramente andare del portiere lionese la butta dentro e succede l’impensabile: io e il tizio bruto a fianco a me ci abbracciamo festanti. Non chiedetemi perché. Lo sport è così: irragionevole, euforico e soprattutto abbatte le barriere, mettendo da parte i giudizi. Sono contenta. La Juve lascia spazi, ma il Lione non concretizza e le juventine sono davvero in bolla dopo il pareggio. Boattin è preziosa, nella sua piccola statura ci sta un sacco di sicurezza che fa salire la squadra.
A fianco a me intanto la discussione si alza a livelli che non avrei creduto possibili e si fa linguistica; il tizio che mi sta fianco chiede al suo amico allenatore: “Ma si dice portiere o portiera?”. E qui devo fare un grande sforzo di autocontrollo per tacere la linguista che è in me, per non tirare in ballo Vera Gheno, la Murgia e tutte cose. “Si dice portiere”, sentenzia l’allenatore senza possibilità di replica, “così come si dice ‘Uomo’‘” (riferendosi a quando si avverte la compagna della presenza di un’avversaria nelle vicinanze). Interessante il fatto che si sia improvvisato membro onorario della Crusca senza ad esempio provare a chiedere che ne so, a noi, donne, quindi già per questo più titolate per rispondere. Ma mi sarei accontentata del beneficio del dubbio, invece no. Si dice portiere. punto. Distruggete pure tutte le norme per il linguaggio non sessista e le discussioni fatte intorno, perché siamo passati oltre.
Le mie orecchie poi intercettano spesso espressioni infelici senza che debba sforzarmi molto per sentirle, anzi. “Io non ci torno con te dice uno dei bruti all’amico, sei troppo eccitato, poi mi tocchi”, riuscendo ad aggiungere un tocco di omofobia a uno squallido commento sessista. Ci vuole del talento anche per questo in effetti. Sorvolo su altre uscite da American Pie perché non voglio dipingere un quadro così tragico, seppure reale.
Ma torniamo al campo: a pochi minuti dal fischio finale la coppia Caruso-Bonfantini, fresca di ingresso in campo, dà ragione alle scelte di Montemurro con un gol da manuale finalizzato dalla numero 22. Lo Stadium è davvero caldo (nonostante i molti posti vuoti) e i nostri vicini intellettuali decidono che andranno a Lione a vedere il ritorno della partita, probabilmente per esportare un po’ di sano Medioevo e ormoni oltralpe. “Andiamo a Lione”, ci propongono. E purtroppo so già dove questo teatrino vuole andare a parare. Fortunatamente arriva il fischio finale, mentre Tizio prima di salutarci tenta il tutto per tutto: “Per organizzare ci servono nome, cognome e numero di telefono”. “Sono sicura che ci troveremo là a Lione, nel caso”, mi affretto a dire, andandome il più lontano possibile.
Il motivo per cui ho fatto questo sproloquio in forma scritta è che ieri in realtà ho perso, sono uscita un po’ sconfitta. Il mio tacere in qualche modo ha rafforzato il loro sessismo per lo più inconsapevole. Per amor di quiete, per vanità, per pigrizia rinunciamo a fare dei piccoli passi avanti, che non sarebbero decisivi, ma sicuramente donerebbero maggiore consapevolezza a questi esseri umani.
Ma non tutto è andato storto in questa bella e vincente partita. A fianco alla mia amica Martina era seduto un uomo, un piccolo uomo di 9 anni. e di nome Simone. Quando zia Martina gli ha detto che saremmo andati allo stadio lui era super contento: “Ma non a vedere la maschile eh, Simone, andiamo a vedere la Juventus femminile”. E lui ha risposto: “Anche meglio!” con i suoi capelli biondi e un sorriso troppo innocente per poter insinuare che anche lui pensasse a cosa hanno le calciatrici sotto i pantaloncini bianchi.
Per lui allo Stadium si va a vedere la Juve, che è una, con diversi interpreti. Io vorrei ripartire da lì, da questo pensiero felice, dalla speranza che vedo prendere forma solo nelle nuove generazioni purtroppo, perché già dalla mia siamo viziatissimi; uomini e donne, senza eccezioni sessiste. Ma Simone no, ripartiamo da questi uomini e stendiamo un velo pietoso sui motivi per cui certi uomini vanno a vedere le partite di calcio femminile. Simone e i buzzurri hanno pagato il loro biglietto lo stesso prezzo. E non è giusto. Io come nuova strategia di mercato proporrei di fare un piccolo test sociolinguistico sulla parità di genere a chi acquista il biglietto. Poi facciamo i prezzi: quello che guadagniamo dalla vendita ai buzzurri lo investiamo in formazione, e speriamo che allo stadio tra qualche anno ci saranno solo tanti Simone, anche cresciuti.